Parzialmente accolto dal Cga, sezione giurisdizionale, il ricorso del 2022 proposto da Isab contro l’Autorità di sistema portuale del mare della Sicilia orientale e l’applicazione di canoni concessori ad alcune opere demaniali.
La società titolare di una raffineria costiera nei comuni di Priolo Gargallo, Melilli e Siracusa e concessionaria di beni demaniali marittimi nella circoscrizione dell’Autorità di sistema portuale del mare della Sicilia orientale, aveva impugnato davanti al Tar di Catania le note con cui l’Autorità aveva determinato i canoni concessori per il 2016.
La società lamentava che alcuni beni da lei realizzati, incamerati dall’amministrazione nel 2015 e concessi in godimento alla società quali pontili, passerelle, briccole e una piattaforma a mare, erano stati qualificati come pertinenze demaniali marittime e non come aree scoperte, assoggettate a una tariffa più bassa e che altri beni pure realizzati dalla società ma non incamerati (fasci tubieri), erano stati assoggettati alla tariffa prevista per l’area di sedime delle pertinenze e degli impianti di difficile rimozione, e non a quella, minore, prevista per l’area di sedime degli impianti di facile rimozione e che per tutte le opere in questione era stata applicata l’ulteriore tariffa per la cosiddetta “volumetria eccedente”, fondata sull’erronea considerazione della quota superiore dei manufatti rispetto al “pelo del mare”.
Si tratta, nello specifico, di una passerella in cemento armato di 1.864,58 mq, che consente il collegamento tra la seconda presa d’acqua di mare e la piattaforma di ormeggio per petroliere fino a trentamila tonnellate, di una piattaforma a mare di 340,17 mq per l’ormeggio di petroliere, di un “primo pontile oleodotto”, che occupa una porzione di sedime a terra e una porzione su specchio d’acqua e un “secondo pontile oleodotto” per una porzione a terra e per una porzione su specchio d’acqua.
Il Tar aveva respinto il ricorso di primo grado, escludendo che le opere possano considerarsi aree scoperte demaniali come, invece, sosteneva la società, in quanto “occupano l’area demaniale con carattere di stabilità, costituendo manufatti attrezzati strumentali allo svolgimento dell’attività produttiva della società; figurano come pertinenze nelle quattro concessioni demaniali in forza delle quali esse sono detenute dalla società e a cui si riferiscono i gravati provvedimenti di determinazioni dei canoni”.
Considerazioni che resistono alle contrarie argomentazioni svolte nell’atto di appello e condivise anche dal Cga che sottolinea che si tratta di manufatti “cui si attaglia perfettamente la qualificazione di pertinenze demaniali marittime, del resto, come detto, testimoniata dalla loro avvenuta acquisizione alla mano pubblica” e per il quale, inoltre, “non è fondata l’ulteriore censura con cui la società sostiene l’erronea applicazione, per le stesse aree, della maggiorazione prevista per la c.d. “volumetria eccedente”.
I magistrati di Palermo si sono, invece, discostati dai colleghi etnei ritenendo parzialmente fondata la censura che contesta la misura sul canone relativo ai “fasci tubieri”, opere poste ai lati esterni dei pontili e non incamerati, che l’Autorità ha ritenuto impianti di difficile rimozione, per l’effetto assoggettandoli alla relativa tariffa.
“Emerge infatti dalla descrizione delle predette opere contenuta nell’atto di appello che – si legge nella sentenza- si tratta di tubazioni “staffate sul lato dei pontili, alla quota del piano di calpestio di questi”, sicchè la loro asportazione non risulta richiedere un’attività a carattere demolitorio, ciò che per la giurisprudenza di questo Consiglio costituisce elemento discriminante tra le opere di facile e difficile demolizione né può valere, in contrario, come ritenuto dal Tar, quanto autodichiarato dalla società, stante il principio della emendabilità delle autodichiarazioni concretanti dichiarazioni di scienza (e non di volontà), risultanti oggettivamente erronee”.
L’appello va dunque parzialmente accolto, con riforma della sentenza gravata e annullamento dei provvedimenti impugnati limitatamente alla qualificazione dei “fasci tubieri” come opere di difficile rimozione anzichè di facile rimozione, e alla conseguente erronea individuazione, per essi, dei canoni concessori per l’anno 2016. L’esito della controversia giustifica la compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio.
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